La presenza triennale al Festival Nazionale di Arte&Disabilità mi ha dato l’occasione di riflettere ad un’esperienza della quale sono partecipe da un po’ di anni –il progetto del Laboratorio Integrato “Teatro Buffo”. Spesso nell’accompagnare gli altri ci scopriamo noi stessi “accompagnati” in un esperienza di conoscenza degli Altri … ed è nato così il pensiero sul significato di questo reciproco “accompagnamento”.
Dall’inizio mi colpì il metodo l’improvvisazione totale in scena, scelta che sembra dare un senso non solo ad un lavoro artistico autentico ma anche alla possibilità di entrate veramente in dialogo con l’Altro, con il Diverso.
Da un punto di vista fenomenologico, “improvvisare” vuol dire essere lasciato alla “libertà” di quello che il gesto “tradisce”, imperfetto magari nella vita, e magari magistrale (leggersi teatrale) attraverso un accenno, un’orma, un epifania di un Te stesso più nudo e forse più vero … Non solo, nell’improvvisare, tutti i ruoli scontati nella relazione con l’Altro, il Diverso, non reggono più. Ognuno dei partecipanti-abile o disabile, attore o spettatore (testimone, come me)- è messo nella condizione di manifestare nient’altro che se stesso. Ho potuto osservare spesso confusa come il gesto “disabile” era profondamente estetico e naturale, mentre l’estetica del gesto “abile” andava costruito in uno sforzo “cosciente” nel ritrovare la spontaneità dimenticata. Situazioni paradossali e forse proprio per questo motivo “integranti”: le prove non erano più prove ma spettacoli in “anteprima”, sempre nuovi e sorprendenti, nella ricerca sospesa di quel momento di grazia che possa dare all’improvvisazione scenica l’autenticità della Vita, le scene non erano più “teatro” ma messa in scena della Vita del personaggio stesso: ovviamente non potevi più giudicare il gesto artistico –poiché nemmeno il processo di creazione artistica lo era nella dicotomia abile-disabile …
Inclusione attraverso l’azione teatrale
Il riconoscimento della Giuria del Festival mi ha fatto poi riflettere al senso e ai criteri che impostano un lavoro di Teatro Integrato; criteri per niente scontati, anzi, essi diventano argomenti che accendono gli spiriti nel “giudicare” non solo un buon spettacolo ma anche le accezioni del significato stesso di “inclusione”. A questo punto diventa fondamentale interrogarsi su alcune “buone prassi” del lavoro teatrale integrato.
Ad esempio, a che pro presentare in scena la disabilità? Qual è il confine fra la “disabilità dell’abilità” e “l’abilità della disabilità”?
La disabilità come rivelazione estetica oppure ricupero delle abilità potenziali?
Accompagnamento in scena del disabile oppure autonomia dell’irriducibile essere ?
Rapporto attore abile-disabile “insieme”: quale rapporto e senso dell’atto insieme-creativo e insieme-teatrale?
In grandi linee, ecco alcuni spunti generali puntualizzati al Convegno organizzato nell’ambito del Festival e i quali potrebbero rispondere indirettamente ad alcune di queste ipotetiche domande:
- Spesso, l’Inclusione è una forma che propone esattamente il suo opposto. È possibile l’inclusione attraverso l’azione teatrale dove “teatrale” sta per “rappresentazione dell’Umano”. L’inclusione (del diverso) è secondaria all’Umano, alla Persona stessa (che è di per se “integra(ta)”). Il problema non è capire se/come “includere” ma “risolvere le vie che escludono”!
- “Il problema del “diverso” inizia quando io prendo coscienza della mia “diversità” e si conclude quando ci riconosciamo tutti “diversi”. “Dobbiamo andare verso l’infinito delle diversità per ricuperare la nostra comunità” (Prof .Ivano Spano)
- Nel lavoro Teatrale Integrato è essenziale l’intelligenza intuitiva del personaggio stesso.
Robert Mc Neer e Pia Wachter raccontano come hanno iniziato il lavoro teatrale stimolati dalla “diversa abilità”, dall’ingenuità e sincerità dell’atto scenico: nella messa in scena di Macbeth, l’attore (un ragazzo down) è molto dispiaciuto per la morte del Re che lui stesso deve rappresentare. Ogni volta che deve “morire”, da “morto” si alza, prende la corona e se la rimette in testa … “Abbiamo capito in quel momento– raccontano i 2 registi –che era proprio questa l’essenza di Macbeth …”E che lo spettacolo poteva essere messo in scena proprio in questo modo.
- Modello medico versus modello etico: attraverso la condivisione si superano i problemi del dialogo con l’Altro
spariscono da soli
- Il teatro NON riabilita, non ha un mandato medico, ma è arte della comunicazione, performance, recupero delle abilità. La vera riabilitazione sta nell’opportunità di sperimentare una capacità.
- Si può creare la disabilità in scena bloccando l’abilità dell’attore stesso. Per esempio,
l’accompagnamento in scena può essere una forma di limitazione del potere e di autonomia. Al contrario, buttando la disabilità in scena, “io vedo qualcosa di inedito, il gesto del tetraplegico” (Corrado Sorbara)
- Dare non il senso di chi “dirige”, ma dare nuovi sensi alla capacità registica
Teatro Buffo. Genesi del gesto “abile”
Comunque, non è la conoscenza dei concetti teatrali che ha stimolato questa riflessione, ma la partecipazione durante i tre anni accanto al Teatro Buffo ad un lavoro che merita uno sguardo nel suo retroscena. Per me, spesso questo sguardo da testimone “dietro le quinte” (cioè alle prove) si è rivelato “spettatore” davanti ad uno spettacolo vero e proprio.
Ho scoperto cosi come la vera “anteprima” e il massimo momento creativo può accadere in un momento di libertà, di improvvisazione appunto. Quel momento di grazia atteso, mai scontato è un’ autentico travaglio creativo costruito in modo umile, senza “indicazioni sceniche”.
Senza scenario, senza copione, senza accessori, solo minimi input teatrali, senza … regista, solo l’improvvisazione dell’attore in scena a farlo diventare all’improvviso “regista” delle proprie risorse e felici intuizioni.
Mi ricordo com’è nata la scena di Emilia in cui due attori stanno presentando il “numero dell’ orso”. Emilia con l’ orso di peluche in mano deve farlo diventare protagonista, deve offrire l’occasione all’ orso di presentare il suo “numero” davanti al pubblico. Emilia possiede un potere immenso, è il “regista” dell’orsacchiotto che tra l’altro accompagna i suoi giorni in comunità (dunque è un oggetto personale, fa parte della sua quotidianità). Gli attori annunciano più volte il “numero dell’orso”: Emilia, diventata lei stessa protagonista, offre al pubblico quel momento di grazia... Veniamo a sapere attraverso la voce trionfante di Emilia qual è il “numero dell’orso”: 05458262.
Quel momento di “grazia” può arrivare o no, può ripetersi o no; è un lavoro onesto e rigoroso, diresti in perpetua preparazione dell’atto teatrale col rischio del derisorio, del fallimento in scena, della troppa sincerità equivalente alla Vita stessa e sfuggente ad un gesto artistico netto –per definizione “pulito” da ogni imperfezione della Vita reale, “vincolo” che il palco scenico richiede.
Pochi sanno che ogni gesto teatrale messo in scena dagli attori è un gesto anamnestico, ogni accessorio è un oggetto appartenente alla propria storia.
In poche parole, è questa la “metodologia” di lavoro teatrale adottata dal regista ed è facile notare come una simile “metodologia” modifichi al minimo la … Realtà, la Vita Vera di ogni “personaggio” che in scena non è altro che se stesso. Un se stesso trasfigurato dal proprio gesto quotidiano ancora più fragile e più magistrale.
Un gesto affaticato, a volte contorto, a volte distorto, a volte ossessivo, a volte bloccato, profondamente imperfetto, insomma un gesto che sospende la sequenzialità spazio-temporale ritmica “normale” in una prospettiva estetica “diversa”.
L’ossessione di un gesto viene reiterata all’infinito fino a quando la difficoltà reale diventa quella dell’interlocutore partecipe al dialogo teatrale. Il blocco del corpo diventa l’unica modalità naturale dell’essere dove l’Altro –l’interlocutore –simula (teatralizza, cioè falsifica!) nella fatica di trovare l’autenticità del gesto “bloccato”.
Il gioco è questo: coloro che “accompagnano” sono coloro che sono accompagnati. Insomma, un lavoro di integrazione include spesso l’inversione dei ruoli secondo il principio: “non si sa mai chi dona e chi riceve”. Sono a turno, Roberto, Pino, Patrizia, Emilia, Elio coloro che donano un senso di cui sono pienamente protagonisti.
Teatro disabilità e simil verità
Mi sono chiesta come mai tanta nudità e povertà di strumenti può generare la pienezza dell’essere Presente in scena in modo cosi autentico?! Mi sono chiesta il perché dell’improvvisazione e della totale mancanza di scenario, della nudità totale di accessori, della nudità dell’essere nel lavoro teatrale con i ragazzi? E soprattutto perché ogni volta che il regista butta in scena lo stesso attore nudo di/con se stesso, la grazia del momento artistico fiorisce cosi trasparente e chiara ogni volta?
Forse non è una scelta “metodologica” casuale il setting teatrale che il regista ha scelto per il suo lavoro teatrale. E ancora: non è senza ragione “buttarsi” senza “strumenti” ne pregiudizi nel tentativo di accogliere l’Altro (intendendo con l’Altro tutto ciò che di “Diverso” nell’Altro ci preserva dal “rischio” dell’Incontro)
La vero somiglianza della tecnica teatrale, fare Teatro con profonda sincerità, mettere in scena l’intimità dell’essere, il poco intervento del regista nel far emergere il personaggio –trae forse il suo coraggio dalla fiducia nella Vita del personaggio stesso.
Non c’è bisogno di “inventare” perché basta vedere la (loro) vita Vera sul palco scenico. Questo è un teatro della Verità che ridona all’azione teatrale la sua originaria grazia: la creatività dell’attimo Vero di Vita che il teatro fondamentalmente rappresenta.
Il teatro classico era catartico, però lo era grazie alla possibilità di estraneazione: lo spettatore viveva in modo “mediato” l’esperienza catartica, il suo “Io” era preservato; il “mediatore” era dunque l’attore, quel “Tu” come contenitore della catarsi per lo spettatore.
Il teatro “Realista” supera i confini, inverte i ruoli, l’abile diventa disabile, il disabile diventa abile e in più, la Vita sta sul palco, il Teatro sta nel pubblico spettatore. Sul palco il Gesto è Vita Reale.
Quello che il “diverso” propone è la Vita usando come “pretesto” l’azione teatrale! In questa prospettiva, il fallimento dell’attore in scena appartiene anche allo spettatore stesso. Ne sono coinvolto “Io” personalmente ed è questo un richiamo che Levinas nominava cosi: l’Altro, il Diverso, il “Tu” richiama la mia attenzione per la sua semplice Presenza davanti a Me.
Dunque Autenticità dell’essere e Presenza dell’Altro sono i due più importanti elementi che il Teatro Integrato propone (o promuove). Ecco dunque le premesse del Teatro Sociale.
Anche se l’analogia non è totalmente sovrapponibile al lavoro di Davide, il pensiero va al teatro di Antonin Artaud ; colui che meglio di ogni altro ha visto nel teatro un mezzo per costruire un’esperienza fondamentale, di Vita, che trascende la sfera estetica. Artaud, regista e attore, fatalmente provato dall’esperienza per i 12 anni passati in un manicomio nell’idea di un mondo malato, promuove la “crudeltà” come lavoro teatrale nella sua accezione di purezza e sincerità del Gesto: il Gesto artistico comprensivo di realtà nuda, di Verità, di Vita.
Ecco alcuni dei suoi pensieri, a sorprendere l’Evento teatrale come Festa.
“Festa” cosi come il titolo del nostro ultimo spettacolo il quale cercava quel attimo di grazia nella “cruda” improvvisazione teatrale.
Cosi il teatro: più lontano dal simbolo, più vicino all’unicità dell’essere !
E allora fra teatro e la disabilità c’è un’ autentica analogia di significati e di corrispondenze.
“L'errore, o meglio, la colpa del teatro Occidentale sta nell'aver "nascosto" ciò che non si dà ad essere nascosto: la pura manifestazione dell'Origine, l’êidolon che “accade e non può essere ripetuto. È per questo che ciò che Artaud auspica non potrà darsi nella forma teatrale occidentale ma bensì solo in quella forma rituale tipica del teatro come evento festivo del teatro Balinese. La litania delle copie risponde al modello occidentale fondato da Platone, per il quale «la rappresentazione è interminabile e indefinita ripetizione di un originale, ossia di un’origine, l’evento accaduto del testo ». Ecco perché il teatro per Artaud non ha ancora cominciato ad esistere, perché ha fagocitato in sé la sua propria essenza: l’irrappresentabile. Ciò che rimprovera Artaud al teatro occidentale è di essere un “teatro della ripetizione”, quell’infinito susseguirsi delle copie che evocano, attraverso la parola, la malinconica nostalgia dell’origine.
Il teatro come rappresentazione è il teatro come théatron, ciò che porta in sé la separazione dalla vita.
E se è vero che la rappresentazione in occidente è parte integrante di una civiltà che spoglia la vita del suo senso, si capisce Artaud quando parla di un teatro puro, cioè purificato, in cui sulla scena accade qualcosa di unico e irripetibile, come «qualsiasi atto della vita».
L’essenza del teatro Balinese si svela nell’accadere. La rappresentazione teatrale coincide con la festa.
Ne La festa e la macchina mitologica, Furio Jesi parla di differenza tra istanti festivi e istanti non festivi coincidente con la differenza tra visibile e invisibile. L’istante festivo, secondo Jesi, deve essere inteso come “l’istante di visibilità” per cui la festa è “abissalmente non quotidiana”; la festa è “quell’occasione di vedere, non di essere veduti”. Quel “visibile” dell’istante festivo è il centro della festa, “l’esibizione o il disvelarsi di un eídolon” . L’Oggi, prosegue Jesi, è il tempo della festa che Artaud si proponeva di attuare con il teatro della Crudeltà. Il teatro come drâma dunque si ritrova solo in un ambito festivo in cui il visibile (eídolon) esiste come qualcosa di irripetibile, come quel teatro Balinese a cui Artaud stesso aveva assistito: lo spazio tra uomini e dei in cui la ripetizione non sarà mai e in cui l’Assurdo non avrà più rifugio”.
Diana Milos
Operatrice e volontaria di Spes contra spem Onlus
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