Ho sotto gli occhi e nel cuore la difficile situazione di diverse organizzazioni del privato sociale – cooperative sociali, associazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale – i cui consuntivi di bilancio tendono sempre più al rosso, e al rosso spinto. Le sofferenze economiche di molte organizzazioni non profit del nostro territorio, che operano nel nostro medesimo settore socio assistenziale, sembra purtroppo non essere più un’eccezione o un accidente, ma un pericoloso trend determinato da componenti strutturali dell’economia locale (e non solo), che di anno in anno abbassa le componenti attive del reddito ed erode le riserve economiche di organizzazioni di per sé già poco patrimonializzate. Ora, mi pare esistano fondamentalmente due modi di guardare al fenomeno, due modi di analizzarlo e giudicarlo, a partire dalle cause per finire agli effetti. Dal modo che sceglieremo dipendono anche i correttivi che sapremo assumere, la strada che sapremo imboccare, non solo come soggetto attivo della solidarietà romana, ma come comunità allargata il cui abbraccio sostiene le nostre case famiglia. Ebbene, giudicandone dal ristretto punto di vista della razionalità economica, la crisi che il terzo settore romano e laziale stanno attraversando è una tipica crisi congiunturale, le cui cause remote risiedono nella particolare configurazione del mercato “a cliente unico”, per cui il 90% dei ricavi e delle commesse derivano da quel particolare cliente che è l’amministrazione pubblica, monopolista o per lo meno grande azionista di riferimento della solidarietà sociale, secondo che il dettato costituzionale ha assegnato come compito allo Stato nelle sue diverse articolazioni. In effetti, a guardare tra le pieghe dei bilanci pubblici più influenti nella formazione della contabilità sociale delle nostre organizzazioni non profit – Comune di Roma, Provincia di Roma, Regione Lazio – i fenomeni paiono essere di almeno due tipi: da un lato si registra un’effettiva e incontestabile contrazione della spesa, e in particolare di quei capitoli di spesa sociale che alimentavano molti servizi sociali: Fondo per l’Immigrazione (azzerato), Fondo Legge 328 (decurtato), Fondo legge 285 (soppresso). Gli enti locali più virtuosi si sono arrangiati e si arrangiano a tenere in vita questo o quel servizio essenziale con stanziamenti straordinari, generati da risparmi su altri capitoli e piccole economie, ma nella gran parte dei casi questi provvedimenti amministrativi hanno comportato la soppressione o la contrazione di diversi servizi a minori a rischio, disabili, immigrati. C’è però anche un altro fenomeno, meno visibile e dunque più insidioso, che intacca la sostenibilità di molti servizi: la crescita “zero” di molti finanziamenti – seppure non viene rubricata a titolo di contrazione della spesa pubblica – finisce di fatto per essere il peggior nemico della sostenibilità economica dei presidi sociali, visto che invece i costi di gestione – e soprattutto il costo del lavoro – aumentano da anni in modo più che proporzionale rispetto ai ricavi da gestione di servizi in convenzione pubblica. Molte compagini sociali, per lo più cooperative formate da soci lavoratori, vivono lo strano paradosso di salutare con inquietudine e preoccupazione ogni nuovo rinnovo contrattuale con le parti sociali. E sì che ogni rinnovo si è siglato negli ultimi 10 anni con eclatanti ritardi!Dunque la contrazione della spesa pubblica – è cronaca di questi giorni l’ulteriore taglio dei trasferimenti agli enti locali, previsto dalla cosiddetta legge di ripianamento di bilancio – è una componente essenziale della crisi congiunturale delle organizzazioni non profit. In particolare è la causa, data la struttura essenzialmente monopolista del mercato, della contrazione dei ricavi e dunque dello sbilanciamento passivo dei bilanci. Come reagirebbero, da un punto di vista di razionalità economica, altri soggetti imprenditoriali? Non c’è dubbio che, in presenza di una severa contrazione del “mercato”, le aree e i settori di passività sarebbero progressivamente amputati e prosciugati, attraverso liquidazioni, cessioni di ramo d’azienda, delocalizzazioni, licenziamenti di massa. Il capitale di impresa si sposterebbe più o meno rapidamente su settori di investimento più fruttuosi. Ebbene, tutto questo nel terzo settore, dati alla mano, avviene in modo soltanto marginale; come mai? Per comprendere le ragioni della tenuta complessiva dei servizi di solidarietà sociale, a fronte di una contrazione delle linee di finanziamento, è necessario assumere un secondo punto di vista, guardando non più alla razionalità economica, ma all’articolazione complessiva del corpo sociale, e alla particolare funzione esercitata da quei corpi intermedi che sono le organizzazioni del terzo settore del comparto socio assistenziale. La storia di queste organizzazioni in Italia è lunga; indipendentemente dalla data di costituzione di questa o quella cooperativa sociale o associazione, sappiamo che tutte vengono da una nobile e veneranda storia. Le loro radici affondano infatti nel rinascimento italiano, in quei secoli XV e XVI che tanta parte della fisionomia italiana hanno disegnato. È in quegli anni infatti che, come Zamagni e altri economisti osservano, si è andata strutturando la funzione sociale di una serie di istituzioni caritative private, per lo più ecclesiastiche o religiose, intermedie tra la finanza e il capitale privato e i bisogni dei cittadini indigenti: pie confraternite, ordini e fraternità laiche, conventicole e accolite di fedeli che – assai prima che si delineasse l’idea di un welfare di Stato, di derivazione più napoleonica e nord europea che italiana – tracciavano col proprio operato la fisionomia di buona parte del sistema sanitario e di protezione sociale, per come oggi lo conosciamo, costruendo un reticolato di “economia civile”, di distribuzione del reddito e perequazione sociale alternativa e antecedente alla fiscalità di stato . È storia, tra l’altro, che molte di queste istituzioni si siano nel tempo fortemente patrimonializzate e, attraversando i secoli, siano giunte praticamente ai nostri giorni, fino ad essere acquisite a patrimonio pubblico dello stato col decreto Crispi di istituzione delle IPAB (legge 6972 del 1890). Il processo costituente dello Stato italiano e il dettato costituzionale, che iscrive la solidarietà come uno dei compiti istitutivi e fondamentali dello Stato, non hanno estinto del tutto – fortunatamente direi – questa direttrice storica, che rende le organizzazioni del privato sociale prima e più che braccia operative della pubblica amministrazione nella realizzazione degli scopi di solidarietà sociale, corpi propulsori e al tempo stesso vicari della capacità complessiva che ha una società, ben oltre l’organizzazione statuale, di esercitare una responsabilità collettiva nei confronti dei poveri e degli indigenti. Solo se si tiene conto di questa matrice storica, di questa responsabilità che si esercita al di là e al di sopra dei compiti precipui che dallo Stato vengono assegnati al terzo settore, si comprende il perché una severa crisi congiunturale come quella che stiamo vivendo, pur mettendo a serio repentaglio le performance economiche delle organizzazioni, non si riflette automaticamente in contrazione dei servizi: la singola cooperativa sociale, la singola associazione di volontariato non “abbandonano” le persone che accedono ai loro servizi in nome della razionalità economica e della quadratura di bilancio, né in nome della congruità del contratto col proprio committente pubblico. In ciò si annida tuttavia, oltre che una grande opportunità, anche un impressionante rischio. E veniamo a esaminare cause ed effetti della crisi, e strategie di fuoriuscita, secondo un punto di vista più qualificato e genuino sul terzo settore, che tiene conto della sua intera evoluzione e della sua identità. Il rischio di tale assunzione di responsabilità è infatti, se intesa unilateralmente, di mallevare d’un sol colpo non solo lo Stato, ma anche la società civile di cui il terzo settore deve essere al contempo l’avanguardia e l’espressione, dalle loro precipue responsabilità. In effetti dovremmo guardare alla crisi, oltre che come effetto di una contrazione della spesa pubblica, anche come risultato di un “eccesso di responsabilizzazione” delle organizzazioni, che troppo spesso lasciate sole finiscono per esercitare il ruolo del Prometeo solitario, o quello del bimbo iperadattato, piuttosto che quello loro più proprio di collettore e attivatore di una responsabilità diffusa. Responsabilità che come tale punta a includere nella propria missione sociale strati sociali sempre più vasti. E in effetti: il disavanzo di bilancio, quando non è determinato da grossolanità nella gestione ma da uno sbilanciamento a favore dei poveri e dei piccoli, non denuncia soprattutto un isolamento e una carenza di condivisione delle responsabilità con la propria comunità di riferimento? Rispondere in positivo a questa domanda, in realtà, non determina un auto-da-fè del terzo settore (e ci mancherebbe altro), ma apre un grande sentiero di speranza, disegnando una strategia di fuoriuscita dalla crisi, a partire dal recupero della propria identità più propria: se è paradigma di una società sana sapersi prendere cura, con sapienza e tenerezza, delle proprie parti più vulnerabili e ferite, così come è sintomo di salute in un corpo sociale saper integrare il conflitto, piuttosto che proiettarne l’ombra sull’escluso di turno (la donna, lo straniero, il rom), allora compito delle organizzazioni del terzo settore è avere a cuore il tutto, questo intero che è la società, sapendone suturare le fratture, accorciare le distanze, perequare le ingiustizie, distribuire le risorse. La solidarietà è, in fondo, passione per l’intero. Compito delle organizzazioni del terzo settore è allora, forse ancor prima che perseguire i propri scopi di sostegno alle persone in stato di disagio, stimolare la società intera a prendersi cura di sé stessa, attraverso la comunicazione sociale, la sensibilizzazione, la promozione delle “buone cause” e la proposta continua della partecipazione, iniettando nel corpo sociale quei preziosi antigeni dell’esclusione e della conflittualità che sono il volontariato, la condivisione e la cultura del dono. Insomma iniettare nel vivo del tessuto sociale massicce dosi di corresponsabilità, che fanno bene a tutti e … finiscono per avere perfino rilevanza contabile.(Antonio Finazzi Agrò)