Il backstage del filmato - in anteprima per Amici per la Città - che racconta la vita degli ospiti nelle case famiglia della onlus Spes contra spem
ono stati i genitori di una mia cara amica a chiedermi di realizzare un filmato per Spes contra spem, una onlus che gestisce quattro case famiglie per disabili, lievi e gravi, e minori qui a Roma. Avevano visto e apprezzato i miei servizi, così è venuto loro spontaneo chiedermi di realizzare un breve filmato per Spes contra spem. Il mio lavoro sarebbe poi stato proiettato all'apertura di una serata di teatro, organizzata per la raccolta fondi a favore della onlus. Non mi ero mai approcciata al mondo delle case famiglie, tanto meno attraverso il video. Così raccogliendo la "sfida", quella cioè di raccontare le attività di Spes attraverso le immagini, ho accettato e mi sono ritrovata dal nulla a passare diverse ore nelle case famiglie gestite da Spes contra spem.
È un venerdì pomeriggio d'inizio settembre quando faccio un brevissimo sopralluogo in tutte e quattro le case famiglie gestite dalla cooperativa, volevo vedere i luoghi, conoscere le persone che le abitavano e gli operatori che li seguivano. È stata una intensa anteprima del viaggio che mi preparavo a fare. Un viaggio diverso dai miei precedenti, senza prendere l'aereo e catapultarmi in qualche realtà difficile del mondo. No, questa volta prendevo la macchina e andavo a Roma Nord, nella mia città, in un universo in cui, fino a questo momento, non mi ero mai addentrata: quella delle case famiglie che accolgono persone con disabilità, gravi e lievi, o minori che non hanno più una famiglia, quel mondo generalmente e freddamente definito dei "meno fortunati di noi".
Nella settimana seguente a quella mia prima visita, mi organizzo con Rossella e Luigi Vittorio, rispettivamente addetta alla comunicazione e Presidente di Spes contra spem, per passare a fare le riprese sul campo. Saranno loro le mie guide di viaggio. L’idea è quella di riprendere tre diversi momenti della giornata in tre diverse strutture, quasi a voler raccontare un giorno tipo nella case famiglia. Il risultato sarà leggermente diverso ma chi ha visto il filmato, e vi invito a vederlo cliccando sul seguente link http://www.youtube.com/watch?v=HPZ4ncvt1oE , mi ha confermato di aver pienamente colto le atmosfere delle case famiglie e lo spirito di Spes contra spem. La prima a essere ripresa è Casablu. Sono due appartamenti, uno sopra all’altro, e ospita 12 persone. Sono tutte con disabilità gravi, e in un primo momento mi sento spaesata. Quello che osservo però mi colpisce dentro. Tutti gli operatori trattano gli ospiti come se fossero persone normali. Ci scherzano, ci ridono, li riprendono se necessario. E in tutto questo non fanno mai mancare la loro presenza laddove loro ne hanno bisogno, per mangiare, per camminare, per andare al bagno, per mettersi a letto, per prendere le medicine. Io continuo a riprendere. Le stanze dove dormono parlano di loro, della vita dentro alla casa famiglia o di quella al di fuori. In ogni camera ci sono due persone, l’angolo sopra il letto di ognuno è personalizzato con foto, peluches, o qualche altro oggetto. La comunicazione con gli ospiti di Casablu è fatta di poche parole, ma ci si scambia sorrisi, sguardi e strette di mano. È Tiziana che mi chiede di sedermi vicino a lei, di prenderle la mano. Vive la sua vita su una sedia a rotelle, la sua testa è quella di una bambina. Mi sorride in continuazione e ogni suo sorriso mi arriva diretto al cuore. Marco è down e sembra non rendersi conto delle riprese, eppure davanti alla telecamera mi lancia un sorriso profondo e i suoi occhi si illuminano, quello sguardo annulla ogni mia titubanza. A cena i ragazzi si ritrovano seduti intorno alla tavola. Tra di loro c’è complicità e affetto. Gli operatori li aiutano a mangiare, alcuni di loro devono essere imboccati. Poi dopo cena tutti a letto. E uno a uno i ragazzi, volontari ed operatori, li aiutano amorevolmente a prepararsi per la notte, io osservo quelle ritmiche lente scandite da professionalità e attenzione. L’umanità, in questa circostanza, non rimane una parola vuota, ma prende il volto di chi lavora all’interno di Casablu.
Il mercoledì sera sono ospite de L’Approdo. E’ una casa famiglia che ospita minori, italiani e stranieri, profughi da paesi in guerra. Accanto all’appartamento de L’Approdo c’è quello di Semi di Autonomia, che accoglie i ragazzi maggiorenni, provenienti sempre dal circuito delle case famiglie, che ancora però non sono autosufficienti. Per la legge sui diritti dei minori non posso riprendere i ragazzi in viso. Quasi sembrano dispiaciuti dal fatto che non possa regalargli un breve momento di notorietà. Ma questo però non ostacola la nostra conoscenza. Ci sono ragazzi afghani, egiziani, dal Bangladesh e dalla Costa d’Avorio, ma anche italiani. Chi è arrivato da qualche mese, e ancora fa fatica a parlare italiano, chi vive lì da più tempo e chi da anni. I ragazzi vanno a scuola oppure frequentano corsi professionali. Proprio due ragazzi, originari del Bangladesh, hanno appena terminato un corso di cucina e sono loro a preparare un ottimo pollo al curry per la serata. Reza, hazara afghano nel nostro Paese da tre mesi, mi racconta la sua difficoltà nell’apprendere l’italiano. Lui parla dari, la versione afghana del persiano, ma in Italia non esiste un dizionario dari-italiano, e quindi si deve accontentare del dizionario italiano-persiano, cosa che gli fa rallentare di molto il suo apprendimento. Ma credetemi è questione di pignoleria, Reza, dopo soli tre mesi di permanenza in Italia, ha una buonissima padronanza della nostra lingua.
In quell’appartamento c’è il mondo. Dagli occhi di ognuno si percepisce la propria storia fatta di rinunce, addii e sofferenza. Ma ora l’Italia è per tutti speranza di una nuova vita. Tra gli appunti di un ragazzo trovo scritto: “Come si sopravvive quando nel cuore si ha più di una patria”. Il messaggio che ne viene fuori è forte e mi colpisce. Il sentimento verso la terra natia e verso quella che ti accoglie può talvolta essere ambivalente, talvolta in conflitto e forse non sarà mai quieto.
A Casasalvatore vivono sei adulti disabili. La loro disabilità è lieve, sono autonomi dal punto di vista fisico, ma non da quello mentale. Vado a Casasalvatore un sabato mattina. Facciamo colazione insieme. Pino, Patrizia, Roberto, Anna, Alessandro Elio mi accolgono con entusiasmo. Si ricordano della mia prima visita e mi fanno una gran festa. Mi mostrano le loro stanze, i loro oggetti più cari, i loro ricordi. Patrizia, appena rientrata dall’incontro per la Preghiera per la Pace a Monaco, mi omaggia di un souvenir della città della Baviera. Roberto mi mostra la locandina di uno spettacolo dove recita sua cugina, e inizia a elencarmi i film dove appare. Mi chiede poi se mi piacciono vari cantanti italiani. E di ognuno mi mostra il cd che custodisce gelosamente in camera. Elio è il più riservato, non parla, ma segue con gli occhi tutta la novità di quella mattina. L’ospite e la telecamera. Davanti all’obiettivo i ragazzi si fanno riprendere senza esitazioni. Mi raccontano della vita all’interno di Casasalvatore, delle attività (teatro, corsi di pittura) che scandiscono i ritmi delle giornate e di come l’atmosfera sia quella di una famiglia. Sono coinvolgenti nei loro racconti e la linea della diversità che fino a quel momento sentivo ben definita, inizia ad assottigliarsi. Qua dentro la disabilità non è un ostacolo alla vita normale, anzi una spinta in più.
Ora ho finito le riprese, torno a casa con un bel po’ di materiale da montare. La sensazione che mi accompagna è di serenità, è la stessa vissuta alla fine di un viaggio: quella piacevolezza per aver vissuto e fatto mio qualcosa che prima non conoscevo, e che nessuno mi potrà più togliere.
“L’isola che c’è”, è questo il titolo del filmato con il quale voglio anche un po’ riassumere la mia esperienza. “Isola” perché al di fuori degli ordinari percorsi di molti di noi, “che c’è” perché ho scoperto esistere, così vicino a me.
Chiara Aranci