Caro Direttore,
sono il responsabile di una casa famiglia di Roma, gestita dalla Cooperativa Sociale Spes Contra Spem, che accoglie minori adolescenti italiani e stranieri.
Ieri ho letto l'articolo a firma Paolo Berizzi “Bambini in casa-famiglia, business da un miliardo all'anno” appena qualche minuto dopo aver iniziato il mio turno di lavoro notturno. Ho trovato i miei colleghi sgomenti intorno a quelle pagine. Poche voci in condizione di commentarle e, Le assicuro, non benevoli.
Credo di poter dire che l'incredulità e la rabbia fossero dovute all'ingenua generalizzazione, non degna di un giornale a così ampia diffusione, della situazione: non un accenno ai diversi modelli di gestione delle strutture, alla diversa solidità dei servizi sociali territoriali, alla diversa sensibilità dei comuni e degli operatori del settore (con cui pure le strutture sono tenute strettamente a collaborare). Non un accenno ai numerosi e brillanti successi di ragazzi che con l'aiuto di una fitta rete di istituzioni, servizi, operatori e volontari, si sono lasciati alle spalle situazioni difficili e dolorose e stanno restituendo alla società non la rabbia dei soprusi subiti, ma l'amore delle cure ricevute.
Si legge soltanto lo scandaloso traffico di merce umana tra soggetti istituzionali e non.
Il problema delle adozioni è drammatico. Molti dei ragazzi che ho incontrato sono entrati e usciti dal circuito delle case famiglia a seguito di tentativi di adozione falliti.
Insieme ad altre case famiglia come la nostra raccogliamo da diversi anni dati sulle adozioni. Purtroppo falliscono nell'80% ca. dei casi per l'enorme difficoltà di "formare" adeguatamente le coppie adottive, con le loro aspettative, che spesso non reggono l'impatto con la "vitalità" e le aspettative dei ragazzi/bambini multiproblematici. Da anni stiamo lavorando, anche con le istituzioni, alla ricerca di un rimedio e di un modo per evitare l'ennesimo trauma per i ragazzi.
Mi conceda una riflessione a titolo strettamente personale: nel corso del tempo mi sono convinto che non possiamo essere noi a scegliere i ragazzi, ma devono essere loro a sceglierci come nuovo punto di riferimento.
Le vorrei raccontare dettagliatamente le incredibili difficoltà che ci si trova ad affrontare nellarelazione con i ragazzi deprivati o antisociali, come li si può chiamare a seconda del grado di paura che ne abbiamo. Invece, sono costretto a raccontarLe in breve quanto “ci costano”, per seguire la linea di pensiero del Suo giornalista.
La retta che percepiamo dal comune di Roma per ogni ragazzo è appena inferiore ai 70 euro al giorno, all'incirca 2000 euro al mese. Con questi soldi una cooperativa che gestisce un servizio come il nostro deve pagare lavoratori specializzati (per legge, educatori professionali) oltre ad assistenti sociali e psicologi, alimenti, vestiti, medicine, formazione, scuola, libri e, perché no, sport, palestre, gite e qualche sfizio, ogni tanto .
Negli ultimi anni il costo del lavoro è molto aumentato (che non significa che siano aumentati gli stipendi inadeguati degli operatori, ma questo è un altro problema), mentre le rette sono le stesse da un bel po'. Nel frattempo è aumentato anche il costo della vita e parallelamente la crisi ha prodotto tagli considerevoli sul capitolo sociale. Il comune di Roma paga con mesi di ritardo e la cooperativa anticipa. In sostanza, il nostro bilancio sarebbe puntualmente negativo se non avessimo amici, soci, parenti, lavoratori e sostenitori sconosciuti che investono quello che possono in denaro o tempo dedicato.
Nelle nostre case il business è rappresentato esclusivamente dalla disponibilità delle molte persone che si spendono per far stare meglio possibile i nostri ragazzi e ho il terrore che un articolo così indiscriminatamente diffamante possa allontanarle.
Cordiali saluti
Federico Feliciani
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